editoriali

La doppia-doppia, il lavoro da boa e i gol nei big match: così Lukaku è stato decisivo

Alex Iozzi

L'aria di scetticismo tra i vicoli di Fuorigrotta (e dintorni) si respirava ancor prima che i direttori di gara che compongono l'AIA (acronimo per Associazione Italiana Arbitri) fischiassero il calcio d'inizio della stagione appena giunta al termine: venduto Victor Osimhen (in prestito annuale) ai turchi del Galatasaray, il nome di Lukaku non scaldava a dovere i cuori della piazza e non suonava a molti come l'erede naturale del nigeriano. "È un downgrade", la frase che maggiormente si udiva all'interno delle conversazioni che avvenivano tra addetti ai lavori e nei quartieri popolari; non solo per le annate deludenti disputate (in tempi recenti) con indosso le maglie di Chelsea, Inter(-bis) e Roma, ma anche (e soprattutto) per colpa di un "virus"(su cui la nostra redazione già un semestre fa accendeva i riflettori) tanto difficile da neutralizzare nella vita di tutti i giorni quanto nel calcio: gli inalterabili gusti personali del singolo.

Una buona fetta di appassionati (o per meglio dire, la maggioranza) non ama l'attaccante che agisce da "boa", non apprezza il centravanti innamorato del dialogo con i compagni e disposto a sacrificare il proprio fisico (quasi sempre rivolto spalle alla porta rivale) al fine di far alzare il baricentro dell'undici per cui gioca. Chi siede sul divano di casa preferisce il finalizzatore puro, il '9' appariscente, che trascina un collettivo al successo a suon di marcature (possibilmente, più di venti). La tifoseria napoletana non fa eccezione: affezionata a interpreti del ruolo che hanno calcato il manto dello Stadio Diego Armando Maradona (alcuni lo hanno fatto quando l'impianto era ancora intitolato a San Paolo) come Edinson Cavani, Gonzalo Higuain, Dries Mertens o il già citato Osimhen, era difficile (per non dire impossibile) che si lasciasse trasportare dal modo di essere prima punta di "Big Rom".

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