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Il Napoli vince e fa cultura: è un segnale di fuoco all’Italia, non solo quella «pallonara»

Il Napoli vince e fa cultura: è un segnale di fuoco all’Italia, non solo quella «pallonara» - immagine 1
L'ha decisa ancora Osimhen, il miglior marcatore africano della storia della Serie A. Per un Napoli senza confini, senza frontiere e per una città che - per una volta - in Italia fa corrispondere i fatti alla sua imponderabile bellezza
Mattia Fele
Mattia Fele Editorialista 

E così il Napoli è campione d'Italia per la terza volta della sua storia. Ribaltate le griglie estive che forse i media nazionali capiranno di non dover più preparare prima di veder giocare le squadre a pallone - ne avevamo parlato ampiamente e in modo profetico qui -. Spalletti vince il suo primo campionato italiano con le proprie idee di calcio perché finalmente i tempi sono maturi affinché il Bel Paese si evolva in materia tecnica e si modernizzi. Il Napoli non ha mai speculato, nemmeno per un minuto in nessuna partita e nemmeno quando forse sarebbe stato più propedeutico ad un risultato (vedere Champions contro il Milan ndr). Questo significa comunque orgoglio, competenza. Anche ieri contro la Fiorentina, il Napoli si è ritrovato quando ha riconosciuto gli spazi in mezzo al campo. Quando si è ricostruito e ha trovato le proprie geometrie con i calciatori chiave, col gioco-chiave. Poi Kvara, Osimhen, Kim, Lobotka e Di Lorenzo sono un'altra cosa.

Il Napoli più di Napoli

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Per una volta la squadra ha battuto la città. Quella che non credeva al successo, forse neanche al quarto posto. Forse neanche alla metà sinistra della classifica. La città del disfattismo, che si è fatta abbindolare in estate da un gruppetto di dieci scalmanati chiamati A16 che ora staranno festeggiando lo Scudetto mischiati nella folla, verdi di vergogna nel subconscio. È lo Scudetto di De Laurentiis, di Giuntoli, di Spalletti. Eppure in quel di Dimaro s'era annusata l'aria di una squadra tranquilla, di un lavoro buono, dei cosiddetti uomini forti. E c'era tanta parte di tifo sano, contrapposta a chi oggi fa pure successo su TikTok e altrove ma ieri insultava la presidenza. Ecco, è della frangia buona questo Scudetto: si sbaglia quando si allarga a tutti. Quest'anno il campionato non va a chi ha attaccato al Maradona lo striscione sulla Fiat Panda di Spalletti né a chi ha provato a sfottere ADL per l'acquisto di Kim o per non aver speso abbastanza: la classica pantomima del popolino che non accetta che qualcun altro abbia dei soldi o che guadagni. De Laurentiis ha i suoi limiti (specie nella comunicazione, all'avviso di chi scrive) ma non ha sbagliato un colpo, una previsione, una sola scelta su un singolo collaboratore.

Poi c'è Spalletti che ha miscelato come si è detto più volte un organico perfetto per le sue caratteristiche. Anzi, forse pure migliorabile. La vera cifra tecnica del Napoli di quest'anno, checché se ne dica, non è stato il possesso ma il pressing e la riaggressione sul recupero-palla. La verticalità. Il contrario di Sarri, per certi versi ma anche la sua compenetrazione. Questo perché il Napoli in generale ha scelto come società il DNA del dominio del gioco, in qualunque modo esso arrivi. Prima si aggira l'avversario se questo sta basso, poi lo si attacca se è lui che prova a giocare. In tutti e due i casi, si va in porta. E lo si fa con Khvicha Kvaratskhelia e Victor Osimhen, due giocatori che oggi - ma seriamente, non come lo si diceva di Insigne e Callejon (entrambi ottimi giocatori ma non a questo livello) - potrebbero giocare in tutte le squadre che sono in Semifinale di Champions. In tutte le squadre che occupano le prime due posizioni di ogni campionato nazionale di calcio del mondo. E c'è chi dice che è strabiliante, perché sono un georgiano e un nigeriano: ecco, il Napoli ha allargato pure le frontiere del mondo del calcio. O del pensiero italiota sul calcio. Perché mai in Georgia o in Nigeria non si può giocare bene a pallone? È roba solo italiana? Solo diagonale, contropiede, libero, mezz'ala e così via? Esistono altre parole, altri Paesi e molti sono migliori del nostro come opportunità e come umiltà. Il 77 del Napoli è un esempio in questo. Poi anche ieri è entrato e ha spaccato la partita. Non lo prendevano mai, ha creato dal niente il rigore che poi ha segnato Osimhen al suo secondo tentativo (poi si parlerà anche di questo problema dei rigori, annoso).

Ma Napoli-Fiorentina è stata quasi una non-partita, vinta per superiorità dal Napoli quando ha inserito gli undici titolari. La partita si è giocata sui volti della gente che era in città e allo stadio. Ma anche sui divani di casa propria, davanti al pc o ad un tablet o in viaggio in aereo, o seduti in un qualsiasi Mc Donald's di qualunque parte del mondo. Qualsiasi tifoso del Napoli è stato il protagonista di ieri, per un successo senza tempo che dà sfizio perché è inimitabile in altri luoghi d'Italia. E qui - si sa - la competizione che si vive è essa stessa il gioco. Già sono troppe, però, le ombre sul futuro: Giuntoli ha le valigie pronte ma in modo commosso perché ama il Napoli e pure se partisse sarebbe giusto, Spalletti sta riflettendo. I calciatori sono appetibili non perché hanno vinto, ma perché sono forti e non esiste solo Giuntoli come buon direttore sportivo. All'estero ci guardano. Guardano il Napoli. L'errore tutto italiano - dovuto alla comunicazione, tutta sita al Nord - è stato pensare che la Juventus fosse il centro del giusto e del come si fa. Per cui un calciatore o lo voleva la Vecchia Signora o non era un calciatore importante. Che poi, si parli anche di questo complesso bianconero che vive intrinseco da anni secondo cui a loro dà gusto venire a far la spesa a Napoli, dopo aver perculato a lungo o semmai dopo aver definito inferiori o giochisti gli avversari. Così hanno provato a prendere Hamsik, Lavezzi, Mertens, Cavani, Koulibaly. Hanno preso Higuaìn e Sarri e si sta parlando solo degli ultimi anni. Per non parlare di Quagliarella, di Ferrara e della lista enorme che ora terminerebbe con Giuntoli. Fanno come se la rivalità non esistesse, poi hanno la sindrome dell'ammirazione per la nemesi. E così sia, se vi pare.

Il vero artefice di questo Scudetto però è Luciano Spalletti, uomo forte. Sempre uguale a se stesso. Con un carattere non difficile, ma vero! Nel mondo del calcio non sono abituati, Luciano. Che innova da quando è nel calcio, che ha creato un ponte (finalmente, forse è uno degli unici in Italia) tra l'anno in cui siamo e il cosa vogliamo essere. Mai lamentarsi, comunicare cultura. Leggere libri, essere in mezzo al mondo e non ai lati sentendoci pure migliori di chi semplicemente comanda tutto in Europa. Spalletti ha dichiarato di guardare - nel suo studio continuo - pure Vincenzo Italiano che è tra gli ultimi arrivati, seppur promettente. Questa si chiama umiltà e viene da Certaldo e viene da Udine, da Roma, poi da Milano nerazzurra. Non è mai cambiata anche quando gli si diceva di tutto. Quella del Napoli è una festa che dà speranza al Bene.

 

A cura di Mattia Fele