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Ma di che calcio stiamo parlando?

Ma di che calcio stiamo parlando?

Il calcio che stiamo vivendo è molto distante da ciò che in realtà questo sport dovrebbe rappresentare

Redazione

CHE FINE STA FACENDO IL NOSTRO CALCIO?

Qualche tempo fa, decisamente molto di meno di quello a cui si penserebbe leggendo un incipit simile, ho assistito a un focoso e passionale clásico in un paese dell'America Latina. Entrando allo stadio, ho cercato prima il mio settore, poi la mia fila, infine il mio posto. Mentre facevo per sedermi, un signore sulla sessantina si è avvicinato e mi ha chiesto di fargli spazio. Al posto mio.

Prima di infastidirmi in attesa di dover difendere la paternità di quel sediolino per i successivi 90', lui mi ha sorriso e ha tirato fuori dalla tasca una stoffa con uno spray. Si è accorto subito del mio sguardo interrogativo e mi ha detto con un sorriso spontaneo:

"Le sto pulendo il posto. Lei è ospite, no? L'ospite è sacro."

Era il giorno di un derby che valeva la prima posizione in classifica per una delle due squadre di quella città.

Ancora oggi non ci credo.

Avrò raccontato questa storia un centinaio di volte, eppure me ne meraviglio sempre, e mi arrabbio allo stesso tempo per aver perso l'abitudine alla gentilezza.

Quello doveva essere una sorta di codice d'onore, che non rendeva esente dai cori, dagli sfotto', dalla rivalità ma nessuna di queste parole faceva rima con violenza, scontri, rappresaglie.

Il calcio è pur sempre una forma di divertimento.

Ma c'è lo sport e a seguirlo quindi la massa, la folla le cui maggioranze non sempre ne difendono la dignità e la spettacolarità.

C'è un altro posto nel mondo, infatti, nel quale mi trovo decisamente più spesso in cui la dimensione del fenomeno della cordialità o, in termini più avvezzi al calcio, del fair-play si è rimpicciolita in favore dell'anarchia totale.

Ognuno si sente in diritto di pretendere, offendere. Ha strappato il diritto alla violenza, laddove esista per davvero qualcosa di simile, e alla rivendicazione di un ideale attraverso ogni gesto di prevaricazione possibile.

Non che vada pulita con accuratezza la poltrona di chiunque da avversario vada allo stadio per un derby, ma perché è lecito il suo opposto?

In questo posto del mondo, infatti, un calciatore di colore è bersagliato da cori razzisti per tutta la durata del match. Quando finisce la partita, sorgono polemiche da tastiera e proclami, ma non esistono carnefici. Resta solo qualche capro espiatorio per un paio di settimane.

Trascorrono poi quattro mesi, l'episodio si verfica nuovamente, un presidente raccoglie un filmato che individua 32 cori razzisti ma gli organi che gestiscono la Federazione calcistica si passano il DVD infuocato tra loro per capire a chi cedere la responsabilità di intervenire. Si promette un cambiamento che non avviene, a meno che significhi assuefazione.

C'è sempre un "però" che giustifica i colpevoli, liberandoli da ogni condanna.

Di nuovo, è in questo posto che una persona qualsiasi, come me o come te, va allo stadio per assistere a una partita che, in termini di classifica, ha un valore non definitivo eppure deve stare attento perché c'è un'ira funesta che comunque è accesa.

Non dal tifo, non si può parlare di tifo.

Un'ira infiammata più sinteticamente dall'ignoranza, alimentata da residui politici e sociali che appartengono a un tempo passato, che avrebbe dovuto condannare al ricordo tutto ciò che non dovrebbe ripetersi.

Eppure è ancora possibile esibire striscioni, cantare cori che inneggino un trascorso che non fa male a chi non l'ha vissuto. Ma lungi dal cadere in un excursus socio-politico.

Questo è solo un racconto.

Un racconto reale di una partita di calcio finita con un'automobile danneggiata perché la targa suggeriva un'appartenenza territoriale, che per qualche strana motivazione è considerata una vergogna da cancellare. Quindi un peccato, che non ho commesso e che tu nemmeno avresti commesso al posto mio. Lo giurerei.

In questo posto nel mondo qualcuno arriva in soccorso, mortificato, pur non essendo il colpevole. Perché un compaesano è stato così vandalo con una persona sconosciuta? Ma accanto passa qualcun altro che lo ritiene giusto: non si può girare in città, nel giorno della partita, e parcheggiare l'auto da "tifoso avversario" (?) dovunque capiti.

Ma davvero? E perché?

In questo posto mancano le risposte e stanno finendo anche le domande, perché erroneamente ci si rassegna all'idea che la deriva sia troppo vicina per potersi riprendere e correre verso la riva.

Dev'esserci un momento in cui tutto è cominciato. Bisogna tornarvi e cambiare. Peccato che "col senno di poi" sia solo un modo di dire.

Esiste un posto in cui non si chiede scusa, non si condivide, non si vive con leggerezza la leggerezza che il calcio nasce per dare. Lo sport, questo sport, diventa il manifesto e il mezzo di sfogo di ogni frustrazione e il raccoglitore di ogni forma di ignoranza e prevaricazione.

La terra di nessuno, dove ognuno si fa padrone di uno spazio e lo difende a spranghe, perché non c'è unità e la condivisione è un affronto all'affermazione di sé stessi come unici, migliori.

Ci sono luoghi nel mondo che non vale la pena definire geograficamente, non perché queste storie non siano vere. Lo sono e chi scrive le ha vissute, ma non vale la pena per due motivi: ogni medaglia ha due facce. Dove ho trovato compartecipazione, indubbiamente è stipato anche il suo opposto. Il problema è quando svanisce il risvolto e resta soltanto una grande percentuale di negatività.

E poi non vale la pena precisarlo, perché il senso di tutto questo, la riflessione alla quale s'invita, finirebbe per lasciare il posto a uno scontro: "Sei di parte", "Non è andata così", "E' vero, però 'voi' (che non so chi siamo, io sono una persona sola)...".

Al di fuori di ogni retorica sulla pace nel mondo, sull'abbracciarci tutti in fratellanza. Davvero è così normale e così accettabile tutta questa ondata di inimicizia e odio? E' così giustificabile e consueto dover nascondere la propria derivazione territoriale per evitare un atto vandalico?

A chi scrive non interessa partecipare a nessuno scontro dialettico o ideologico, ma vorrebbe solo una risposta valida alla domanda più semplice: sicuri che questo sia calcio?

di Sabrina Uccello

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