In un calcio nel quale le bandiere scarseggiano sempre di più è importante dar voce a chi ha sudato ed onorato la maglia fino alla fine senza mai rinnegarla. Il nerazzurro dell'Inter cucito sulla pelle ed un cuore granata, Sandro Mazzola si è raccontato ai microfoni di CalcioNapoli1926 ripercorrendo la sua carriera e ricordando suo padre.
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In un calcio nel quale le bandiere scarseggiano sempre di più è importante dar voce a chi ha sudato
In un calcio nel quale le bandiere scarseggiano sempre di più è importante dar voce a chi ha sudato ed onorato la maglia fino alla fine senza mai rinnegarla. Il nerazzurro dell’Inter cucito sulla pelle ed un cuore granata,...
Ha iniziato giocando a centrocampo, com'è avvenuta la sua trasformazione in attaccante?
"È stato merito di Herrera, era arrivato come allenatore dell'Inter e vedendomi giocare con le riserve mi prese da parte e mi disse che non ero un centrocampista e che avrei dovuto giocare come attaccante. Io non credevo tanto in questa idea del mister ma a forza di insistere una domenica mi disse che partivo titolare ma come mezza punta, effettivamente mi trovai bene (ride, ndr)".
Il nerazzurro cucito sulla pelle, a cosa è dovuta la sua scelta di restare all'Inter per l'intera carriera?
"Quando è morto mio padre, grande capitano del Torino, tornammo al paese dei miei genitori ed il mondo del calcio non sapeva nemmeno dove fossimo. Un giorno in un InterClub che si trovava in un paesino vicino andò Lorenzi, lui sapeva che quello era il paese di mio padre e chiese di noi figli. Ci venne a trovare e ci parlò dell'Inter, ci propose di diventare le mascotte dell'Inter. La domenica, il mio patrigno, ci portava dove mangiavano i giocatori e poi con la squadra (in pullman) raggiungevamo lo stadio, entravamo in campo con i completini dell'Inter. Arrivavamo a centrocampo con le due squadre e poi ci mettevamo su una panchina dove vedevamo la partita. Se l'Inter vinceva o pareggiava Lorenzi andava dal presidente Masseroni e chiedeva il premio partita anche per noi. Avevamo 25mila lire o 15mila lire a seconda della vittoria o del pareggio".
In Nazionale aveva un tosto rivale con il quale contendere un posto da titolare...
Che rapporto aveva con Rivera?
"Avevamo un buon rapporto. Insieme a Bulgarelli e agli altri fondammo il sindacato calciatori. È stata una cosa molto difficile da fare perché c'erano alcune situazione, alcuni giocatori che per alcuni mesi non vennero pagati poiché la squadra andava male. Loro ci chiamarono per chiedere aiuto e quindi fondammo questo sindacato con Rivera, da lì si è potuto avere un bel confronto diretto, poi è chiaro che quando si parlava di calcio lui era Milan ed io Inter".
"Questa è la mia maglia; tienila, perché sei degno di tuo padre". Queste sono le parole che Puskás, attaccante del Real Madrid, pronunciò al termine della finale di Coppa dei Campioni 1963-1964, in cui lei segnò 2 reti. Che sensazione ha provato quando in quel momento?
"Puskás era un grande giocatore che aveva lasciato l'Ungheria quando questa si era ribellata all'Unione Sovietica. Per me fu una cosa fantastica, non riuscivo a rientrare negli spogliatoi dopo quelle parole. Successivamente mi informai ed aveva giocato un anno prima che il Torino morisse, credo all'arena di Milano, contro una Nazionale che era formata per gli 8 o 9 undicesimi dal Torino".
Suo padre giocò nel Grande Torino, non ha mai pensato di vestire la maglia granata?
"L'ho pensato. C'è stato un momento nel quale ho creduto di andare al Toro ma all'improvviso cambiarono le cose. Avrei voluto finire la mia carriera lì, avrei voluto vestire quella maglia perché mi ricordo di quando mio padre mi teneva per mano e mi portava a centrocampo. Il Torino è sempre stato per me qualcosa di importante ma non c'è mai stata, da parte della società granata, la volontà di assecondare il volere dei figli. Probabilmente quel dramma fu talmente grande che ha scombussolato la testa a tutti".
Giocare nello stadio del Torino con la maglia dell'Inter che emozioni le suscitava?
"La prima volta fu una cosa drammatica. Io ero nei ragazzi dell'Inter, la semifinale del campionato italiano e la partita si giocava alle 14.30 del sabato. Io quel sabato ero a scuola ed avevo tre interrogazioni che erano cruciali per la mia promozioni. Mia madre mi disse che non potevo andare a giocare e quindi all'allenamento spiegai a Meazza (allenatore di quel periodo) che non potevo giocare la partita. Lui mi chiese a che ora avessi le interrogazioni ed io gli risposi che le avrei avute alle prime 3 ore. Meazza mi rispose che alle 11.15 avrebbe mandato una macchina a prendermi per portarmi a Filadelfia. L'ultima interrogazione era di matematica, con un professore che avevamo soprannominato 'Quacciolo' perché non pronunciava mai 'Quattro'. Fino all'ultimo mese avevano tutti 4 o 5, poi promuoveva tutti.
La prima interrogazione va bene, la seconda va bene, arrivato alla terza ero un po' stanco. Il mio compagno di banco si alzò e disse al professore che non poteva interrogarmi perché ero stanco e dovevo andare a giocare a Torino, quindi non potevo sostenere un'altra interrogazione. Tutte le settimane il professore mi faceva fare la schedina perché pensava che io sapessi di calcio (ride, ndr) quindi mi fece una sola domanda semplice alla quale risposi bene. Alla fine presi la mia valigetta dell'Inter, salutai i miei compagni, sotto c'era il taxi che mi aspettava e mi portò a Torino. Quella fu la mia prima partita in Serie A".
La sua forte devozione è dovuta alla perdita prematura di suo padre?
"Penso che sia dovuta al fatto che i miei genitori mi imponevano di andare in chiesa alle 7 e 30 per poi poter andare a giocare.
Il prete ci dava le chiavi del campetto solo se andavamo alla messa delle 7 e 30. Il campetto era una strada in asfalto di fianco al cinema della chiesa che lui aveva chiuso, aveva messo due porte. Lì ho imparato a fare lo scambio perché tiravo la palla contro il muro che andava alle spalle dell'avversario, la andavo a prendere ed in questo modo dribblavo. Successivamente l'ho fatto con i miei compagni".
Qual è il ricordo più bello legato alla figura di suo padre?
"Lui mi portava sempre al campo, lui era il capitano e stava davanti a tutti. Mi teneva per mano perché aveva paura che fossi agitato. Quella mano è quella che io ho trovato sempre nei sogni e nei momenti difficili, sia a scuola che nel calcio. Alla sera cercavo di addormentarmi pensando che ci fosse quella mano a proteggermi".
A quale allenatore deve di più nella riuscita della sua carriera?
"Sicuramente ad Herrera. Dribblavo bene e quindi mi fece giocare come punta. Io ero magro e mi sono sviluppato tardi, il gioco di quel tempo era molto fisico ed io non credevo di esserne capace. Alla fine aveva ragione lui perché sono diventato una delle mezze punte più forti di quegli anni in Europa.
A fine carriera però sono tornato a giocare a centrocampo come mio padre, era il mio desiderio".
Si reca spesso a Superga?
"No, adesso vado poco. Alle celebrazioni non sono mai andato però prima andavo ogni anno lì.
Pensavo che quelli che erano a Torino allora non meritavano che noi andassimo. Con i figli degli altri giocatori coinvolti nella tragedia andavamo sempre o due giorni prima o due giorni dopo il 4 maggio".
Nelle giovanili lei era allenato da Meazza, ha mai ricevuto qualche ramanzina da lui?
"Sì sì, ne ho ricevute. Meazza era uno che parlava poco, i suoi allenamenti cambiavano sempre. Ci insegnava a tirare i rigori, non si riusciva a capire se fosse destro o mancino talmente che era preciso con entrambi i piedi. Per noi era una cosa fantastica.
Una volta partecipammo al torneo di Ginevra, competizione alla quale prendevano parte tutte le più grandi squadre d'Europa. La premiazione si faceva in un night club, allora vedere due seni non era una cosa normale come oggi. Tutti quelli che tornavano dal torneo ci dicevano di andare alla premiazione perché c'era la premiazione. C'era un mio compagno un po' più grande di noi, aveva dato l'appuntamento ad una spogliarellista. Quella sera andammo tutti a letto ma con le porte delle camere socchiuse per vedere se la donna arrivasse. Non è mai arrivata e quindi abbiamo riempito di botte il nostro compagno (ride, ndr).
In quel torneo fui premiato come miglior giocatore".
Può raccontarci di quando suo fratello (Ferruccio) denunciò Herrera (suo allenatore all'Inter)? È vero che vi faceva assumere sostanze stupefacenti?
"Il Mago era un fenomeno (ride, ndr). Lui metteva una pastiglia nel caffè e quindi i giocatori pensavano fossero stupefacenti. Io la feci analizzare, perché volevo sempre sapere tutto, ed era aspirina. Lui te la dava come se se fosse una bomba atomica. Questo ti faceva bene alla testa.
Mio fratello denunciò il fatto perché avrebbe voluto giocare nell'Inter. Il Mago lo riprese ma non gli diede mai l'opportunità di giocare e allora lui se la prese".
Da giocatore dell'Inter a dirigente del Torino, cosa è cambiato?
"Io son stato dirigente anche all'Inter, avevo delle mie idee. Lavoravo sui giovani, mandavo i miei compagni di squadra in giro per l'Italia ad osservare e quindi creavo una squadra di giovani fortissima. Vincemmo a Viareggio dove l'Inter non aveva mai vinto.
Volevo che gli allenatori insegnassero a stoppare, a calciare come ai miei tempi".
Che rapporto ha avuto con Angelo Moratti?
"Angelo era come un padre per noi, aveva sempre una parola per tutti. Io facevo il contratto come tutti dal direttore generale, l'anno in cui mi aggregarono alla prima squadra non mi chiamava mai il direttore quindi iniziai a pensare che volessero vendermi.
Un giorno mi chiamò la segretaria di Moratti e mi disse che il presidente voleva farmi firmare il contratto.
Mi tremavano le gambe, andai in Piazza Duomo ed entrai nell'ufficio. Mi domandò se fossi iscritto all'università e se avessi dato esami perché riteneva che lo studio faceva giocare meglio a calcio. Mi disse che avrei dovuto dare esami e continuare, poi mi chiese quanto volessi di contratto. Non sapevo cosa dire, lui mi diede il doppio di quanto pensavo. Aggiunse che se avessi fatto più di 10 gol avrei avuto un premio e che se avessimo vinto lo scudetto ci sarebbe stato un altro premio. Andai a casa di corsa da mia madre a dirmelo, lei non ci credeva".
E se la Juventus le avesse offerto una maglia da titolare?
"Un giorno finii l'allenamento ad Appiano Gentile, andando a prendere la mia macchina vidi un'altra vettura targata Torino e mi sembrò una cosa strana. Uscì un vecchio portiere della Juve, io ci avevo giocato anche contro, e mi disse di salire in macchina perché c'era una persona al telefono che voleva parlarmi.
Era l'avvocato Agnelli. Io me la stavo facendo addosso, non era come oggi che queste figure di spicco le guardi alla tv. Mi disse che voleva incontrarmi perché aveva una proposta interessante e mi raccontò che andava a guardare le partite del Torino di mio padre di nascosto. Non poteva dirlo perché era della Juve.
Andai all'appuntamento, mi propose una concessionaria FIAT a Milano, un'agenzia di assicurazioni ed il doppio dello stipendio. Mi girava la testa e gli risposi che avevo bisogno di un giorno per pensarci dato che l'Inter aveva rappresentato tutto per me.
Quella notte non dormii, raccontai a mia madre la situazione e mi rispose che mio padre si sarebbe rivoltato nella tomba se avessi accettato. Ecco perché rifiutai".
Un pronostico per Torino-Napoli?
"Una domanda un po' scomoda (ride, ndr). Il Napoli mi piace moltissimo, il Toro però è tosto.
È chiaro che io faccio il tifo per i granata, mi accontenterei anche di un pari".
©RIPRODUZIONE RISERVATA PREVIA CITAZIONE DELLA FONTE: CALCIONAPOLI1926
REDAZIONE - Armando Inneguale.
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