Ne ha avuta Aurelio De Laurentiis, ora è a presidio della squadra: vicinanza, presenza. La cura funziona?
«Il presidente è il presidente. Certe volte non serve neppure parlare. Bastano secondi, neppure sproloqui. Dopo le difficoltà iniziali contro Fiorentina ed Espanyol, ai miei tempi, Berlusconi fece un discorso di 27 secondi. Ci convocò nell’ufficio, si rivolse ai giocatori e disse: “Ho fiducia in Arrigo, sto con Arrigo. Chi di voi la pensa diversamente sarà ceduto. Buon lavoro a tutti”. Ricordatelo e scrivetelo: un club con la propria cultura e la propria storia, rappresentato dal proprio presidente, viene prima della squadra. La squadra viene prima del singolo».
A proposito di singoli, il Napoli non ha Osimhen e Giroud a 37 anni è in overdose di partite. Chi ne risente di più?
«Nessuna squadra paga dazio a priori perché il calcio non è un uomo ma un collettivo. Il Napoli lo ha già dimostrato: vince anche senza Osimhen, così come il mio Milan ha vinto lo scudetto con Van Basten che giocò poche partite intere e poi ha alzato al cielo la Coppa dei Campioni con Gullit a mezzo servizio. Dunque il Napoli resta solido, può vincere a prescindere dall’assenza del suo bomber. Il problema è capire come vince».
In che modo, secondo lei?
«Qui si apre un discorso sul famoso giuoco tanto caro a Berlusconi, che diceva vincere, convincere, divertire. Giocare bene non è forma, non è dettaglio: giocare bene è il primo passo per vincere e per restare competitivi a lungo. Poi i in Europa, dove il calcio è più evoluto emettono al centro spettacolo e collettivo, l’Italia e le nostre italiane di Champions ne escono con le ossa rotte. Avete visto il Napoli a Berlino?».
Ha vinto…
«Certo, verissimo. Però non ha dato spettacolo. Non mi sono piaciute la cifra del gioco e la distanza tra i reparti. Vincere aiuta a vincere, d’accordo. Però vincere non fa sempre bene, se non sei abituato a farlo. Vedo giocatori un po’ spenti o forse un po’ sazi, alcuni di loro forse si sentono arrivati. Non riconosco più Lobotka. Prima era uomo ovunque e non perdeva palloni. Adesso è un giocatore diverso. Chi non correva con me non giocava. Vale per tutti. Se io fossi l’allenatore, lo farei ancora adesso. Vale anche per qualche milanista».
Un esempio?
«Leao l’anno scorso ha fatto la differenza nelle sfide ravvicinate con il Napoli. Però Leao è Leao se corre, se scatta. Se non corre, io non lo faccio giocare. Talvolta per i giocatori occorre anche il pugno duro».
1maggio 1988: quella partita vinta 2-3 dal Milan a Fuorigrotta viene considerata da molti manifesto del sacchismo. Per lei?
«Manifesto della civiltà, perché i napoletani sugli spalti furono correttissimi, riconobbero la nostra superiorità di gioco e ci applaudirono. È un ricordo forte: è cultura dello sport ma anche capacità di riconoscere i meriti di un avversario. Accadeva nello stadio di Diego, oggi intitolato a lui».
Chi era per lei Maradona?
«[ Un giorno mi permisi di dire che in tre anni il mio Colombo, il mediano, aveva vinto più di Maradona. Da quel momento, giù titoloni: “Sacchi ha detto che Colombo è migliore di Maradona”. Poteva mai essere? Maradona è stato il tocco d’artista del nostro calcio. Resta però il collettivo. Al ristorante mi chiesero chi avrebbe marcato Maradona. Mia moglie: “Ma tu non giochi a zona?”. Probabilmente o lo facevo male o non volevano capire».
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