Di Giuntoli, invece, almeno ufficialmente nessuna notizia. Chissà. Quello che si sa è che Garcia è uno sfrontato, non solo nel gioco ma anche nelle parole. Il suo italiano corre via veloce, la sua fermezza non inciampa nemmeno sull’avvicendamento con Spalletti, «un occhiolino del destino» ed è subito Ornella Muti. Sicuro, spavaldo e pronto allo slancio del nuovo inizio. Alle parole sulle casacche contrappone i valori, normale per uno cresciuto in provincia con un padre allenatore, morto guardando giocare la sua squadra, il Lilla, senza capire una sua scelta: «Ma non fa giocare De Melo», le ultime parole. Perché Garcia gli aveva preferito Fauvergue. Poi aveva organizzato la partita successiva, prima di partire per il funerale, un gesto alla Michael Schumacher. Ecco Garcia è apparso un pilota di Formula Uno: che va incontro alle curve cosciente del proprio manico. E accelera, smarcandosi anche dall’ombra che gli proietta addosso chi pensa che essere andato ad allenare nel deserto, all’Al-Nassr, sia stato un passo verso la pensione. Per lui è stata una Parigi-Ronaldo come se fosse la vecchia Parigi-Dakar. È tornato al calcio di prima linea, in una società virtuosa che prima di spendere ci pensa su più di quanto impiegasse Degas tra una pennellata e l’altra, e mostra tutta la felicità. È tornato alla vita, che poi è la Champions League. Anche se arrivare in finale è come scalare le otto montagne.
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