Consigli da papà? "Ogni giorno, è il mio primo tifoso. Soffre tantissimo le gare, mi chiede, ascolta ma sempre in modo discreto. Non è invadente. Lascia che faccia la mia strada e, solo se glielo chiedo, mi dà un suggerimento".
Com’è il calcio in Brasile? "Lo si capisce solo vivendolo. È pazzesco, c’è una passione che noi europei neanche immaginiamo. Qui vivono di pallone 24 ore al giorno, è il centro dell’esistenza. Se il Botafogo perde, i tifosi piangono: capite la responsabilità? Io alleno la squadra che è stata di Garrincha, di Nilton Santos, di Didì, di Zagallo, di Jairzinho. Sono nella leggenda".
Com’è stato accolto? "Il pubblico mi ha accolto benissimo. E anche la società. Diffidenza non ne ho avvertita. Curiosità sì, logico. Ma contano i risultati: se fai bene, sei un fenomeno. E se fai male, ti criticano. è così ovunque e il Brasile non fa differenza".
Qual è il suo calcio ideale? "Non ho un modello particolare. Nell’ultima stagione mi è piaciuto molto il Psg di Luis Enrique. Squadra che si muove compatta, che fa bene fase difensiva e offensiva. Il mio obiettivo è quello di dare uno stile di gioco al Botafogo e poi, come sempre, sono i calciatori a far la differenza".
Uno che vorrebbe con se? "Un fenomeno che purtroppo ha smesso: Toni Kroos. In assoluto, il mio preferito tra quelli con cui ho avuto a che fare".
Al Mondiale sarà ancora al fianco di papà Carlo ct del Brasile? "Se mi vorrà ancora... Partecipare a un Mondiale alla guida del Brasile è un’opportunità fantastica. Lui è molto carico, sente tantissimo l’impegno. E io gli darò una mano".
Che cosa ha imparato da papà?"Tutto quello che so è frutto dei suoi insegnamenti; è il mio modello, non posso nasconderlo, ma non voglio essere la sua copia. Ho le mie idee, a volte abbiamo discusso su questioni tattiche. Succede quando si lavora a stretto contatto. A me piace un calcio aggressivo, molto verticale e organizzato. In questi anni ho studiato parecchio: non solo i metodi di papà, ma anche quelli di Guardiola, Klopp e di altri grandi tecnici. E poi, quando non so che fare, mi guardo una gara del Milan di Sacchi e mi vengono i brividi: quella squadra faceva, 35 anni fa, ciò che si dovrebbe fare oggi. Pressing, sovrapposizioni, aggressione dell’avversario, fuorigioco sistematico. Pazzesco".
Il suo metodo di lavoro? "Una sola parola: dialogo. Ho imparato che con i calciatori si deve parlare, li si deve ascoltare. È così che si costruisce un gruppo vincente. Mi reputo un allenatore tranquillo, non amo alzare la voce".
Questa lezione gliel’ha insegnata suo papà? "No, viene da dentro. Noi Ancelotti siamo fatti così. A volte, è più importante fare quattro chiacchiere con un giocatore che magari è un po’ giù di corda piuttosto che spedirlo in campo a correre. Il buonsenso è una regola fondamentale".
© RIPRODUZIONE RISERVATA
/www.calcionapoli1926.it/assets/uploads/202512/5c56087f4239977589c3343b3205fa19.png)