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editoriali

Me’ credevo ca murevo e ‘stu juorno nun ‘o vedevo…

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"Il Napoli è campione d'Italia!"... un anno dopo
Alex Iozzi

"Ce erama scurdate tutt 'e problem...". Così Gaetano D'Angelo, dai più conosciuto con l'appellativo di "Nino", introduce, intervistato da Paolo Bonolis ad "Il senso della vita", nell'ormai lontano 2006, il racconto dell'esperienza che maggiormente ha contribuito a sconvolgere la propria esistenza: il primo Scudetto targato SSC Napoli. "Pe n'attimo Napule nun tenev' 'e problem. Pienze Napule comm'è belle, senza problem fosse cchiu' belle ancora? Chella sera stev' Napule senza problem...". Un'emozione tangibile, mista ad un velo di nostalgia dei tempi andati. Una narrazione dell'evento, accompagnata da un accecante sorriso, che cattura i cuori non solo dei tifosi azzurri, ma anche rivali, primo su tutti il conduttore della trasmissione, di fede nerazzurra dalla nascita. Parole che, a distanza di quasi due decenni, riecheggiano per i vicoli di Partenope e dintorni ad un volume sconsiderato.

Un traguardo che, per il modo in cui è arrivato, può esser paragonato ad una Serie TV. Una di quelle vecchio stampo, quando ancora la gente le chiamava "telefilm", con le puntate mandate in onda a cadenza settimanale, in maniera tale da creare nello spettatore interesse riguardo un possibile sviluppo futuro della trama. Come quell'amico d'infanzia che, una volta entrato nella tua vita, ha deciso di non uscirne più. Anzi, tu lo hai deciso. Lo hai scelto sin dalla prima lettura dell'incipit, da quelle poche righe trovate sul web che ti han fatto esclamare: "Merita il mio tempo". Ad onor del vero, è stato più semplice del previsto. Perché a te piacciono idrammi, ti affascinano le storie in grado di provocarti una dolorante fitta allo stomaco per poi condurti, inconsciamente, ad uno stato di benessere superiore. A te piacciono le tragedie, quelle che ti causano la più crudele delle sofferenze, che ti fanno cadere in un oblio dal quale apparentemente non c'è via di scampo, mentre un raggio di luce viene proiettato sopra il tuo capo quasi a comunicarti che uno spiraglio di salvezza esiste, ma che bisogna attendere, in silenzio, senza metter fretta a quel destino sadico. A te piacciono le favole, quelle che riescono a smuovere la tua anima fragile, capaci di farti provare un turbinio di emozioni che con il mondo reale hanno ben poco a che vedere. A te piace vivere.Piace vivere e sentirti vivo. Ed allora, preso dallo spirito dell'avventura, parti. Ti immergi in una realtà degradata, con un prologo che non si fa il benché minimo scrupolo a gettare il tuo morale nel baratro più profondo.


"Napoli Soccer: dall'Inferno al Paradiso, risalendo per il Purgatorio"

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30 luglio 2004: la VIIª sezione del Tribunale di Napoli dichiara il fallimento della Società Sportiva Calcio Napoli. Un violento schiaffo in piena faccia. A prelevarla sarà il regista dietro tutta l'opera, Aurelio De Laurentiis, il quale iscrive la formazione campana, sotto la denominazione di Napoli Soccer, al campionato di Serie C1. Una serie che tratta la tematica del riscatto sociale, della rivalsa sportiva. Niente di più stimolante. Sin dalla prima puntata, ti affezioni ai personaggi, primari e secondari, nessuno escluso. Provi empatia nei loro confronti, ti immedesimi nei loro problemi, tutto per figure che appaiono distanti, ma che in verità sono più vicine di quanto si voglia far credere. E nel mentre tu cresci, anno dopo anno, stagione dopo stagione, affrontando al fianco dei protagonisti, e loro con te, gli ostacoli che la vita vi pone davanti. Ricolleghi i momenti, fasi intere della tua esistenza agli eventi più significativi, belli o brutti che siano, legati a quella squadra: dalla promozione in B allo 0-0 di Genova, che sancisce la fine di un lungo Purgatorio durato oltre 2000 giorni; dalle rimonte insperate sotto la guida di Walter Mazzarri al ritorno nell'Europa che conta a distanza di due decadi; dalle Coppe Italia conquistate ai danni di Juventus e Fiorentina all'estasi di Rafael Cabral nella notte di Doha; dal calcio spettacolo di Maurizio Sarri al disastro firmato Carlo Ancelotti, seguito dal bipolare "odi et amo" nei riguardi di Gennaro Gattuso; dalla gloria guadagnata in campo internazionale sfidando a viso aperto il Liverpool di Jürgen Klopp ed il Manchester City di Roberto Mancini alle disfatte più eclatanti subite con il Real Madrid di Zinedine Zidane ed il Barcellona di Xavi Hernandez, passando per il vero trauma del tifoso partenopeo: Stamford Bridge.

"Trauma", il termine adatto per riassumere le cocenti delusioni della storia recente del club a tinte azzurre. Due su tutte: Firenze ed Empoli. Due catastrofi di proporzioni bibliche, a tal punto da indurre anche i più accesi sostenitori a pensare che la tanto decantata chiusura del cerchio non si sarebbe mai avverata. Non di conforto neanche l'uscita del trailer estivo dell'ennesima stagione, ormai giunti alla diciannovesima, il quale preannuncia la vendita dei pezzi più pregiati della rosa per sostituirli con nomi di calciatori semisconosciuti al grande pubblico. Ma si sa, l'universo, quando meno te lo aspetti, riserva sempre delle sorprese. Sorprese che, in questo caso, si traducono in un coreano, maestro nell'arte della difesa, e in un georgiano, dotato di una classe d'altri tempi. Due cambi. Due soli cambi di formazione bastano per trasformare una squadra data per spacciata ai nastri di partenza in una schiacciasassi senza eguali, né nel presente né tanto meno nel passato del campionato tricolore. Un dominio incontrastato, costante sia nelle prestazioni che nei risultati, ottenuti grazie ad una proposta calcistica nettamente superiore a quelle rivali, oltre che, in primo luogo, dal gruppo. Un gruppo straordinario, oserei dire fraternoper il legame dimostrato tra le linee del rettangolo di gioco e fuori. Da agosto a maggio, un obiettivo mai messo in discussione, raggiunto lasciando le briciole alle inseguitrici, dettando legge in ogni città del Belpaese: da Roma a Bergamo, passando per Verona e Bologna, fino ad arrivare alle nemiche più odiate, Milano e Torino.

"11 maschioni sudati che calciano un pallone..."

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Sorge, però, spontanea una domanda nelle menti di chi questo mondo non lo guarda con i nostri stessi occhi: "È normale tutto questo clamore per undici uomini che corrono dietro un pallone?" La mia risposta, pregna di orgoglio, è sì, decisamente. Perché è questa la vera essenza, non solo del "fútbol", come lo chiamerebbe qualcuno, ma dello sport in generale. Come una bolla indistruttibile nella quale, come spiegato dal buon vecchio "Nino", i grattacapi della vita vera volano via, trasportati dal vento della passione che trionfa, inevitabilmente. E dunque siam pronti, tutti in piedi con un interminabile brivido che ci attraversa la colonna vertebrale ad attendere il finale di serie. 4 maggio 2023: dopo un primo match point non sfruttato contro i cugini salernitani, si scende in campo ad Udine. L'undici titolare di quella sera è uno di quelli che ricorderai fino all'ultimo respiro emesso: In porta Alex Meret, nome aggiunto dalla Treccani tra i sinonimi della parola "rinascita". A difesa dell'area di rigore, la muraglia invalicabile eretta dal capitano, Giovanni Di Lorenzo, Kim Min-jae, Amir Rrahmani e Mathias Olivera. A centrocampo il giusto miscuglio tra follia ed intelligenza tattica formato da André-Frank Zambo Anguissa, Stanislav Lobotka e Tanguy Ndombele. Davanti la furia incontenibile di Eljif Elmas, Victor James Osimhen e Khvicha Kvaratskhelia. L'ansia è il sentimento regnante tra i tifosi ospiti, alimentata dal destro piazzato sotto l'incrocio di Sandi Lovric al 13' della prima frazione di gioco. Poi, al minuto 52, come un fulmine a ciel sereno, ci pensa il nigeriano con la numero 9 a scacciar via i fantasmi di un passato burrascoso che appare superato nel raggiante presente. Gli ultimi secondi di partita sono un'agonia interminabile, che si scioglie come neve al sole al triplice fischio del direttore di gara, per l'occasione Rosario Abisso.

"Sono le ore 22:37. Il Napoli è campione d'Italia per la terza volta nella sua storia". È la vittoria di un popolo, di chi non ha mai smesso di vedere la luce anche nell'oscurità più cupa. È la vittoria di chi assiste dall'alto, come l'entità divina alla quale è intitolato lo stadio di Fuorigrotta, che come al Mondiale in Messico dell'86 ci ha messo la mano, ancora una volta. È la vittoria degli eterni secondi, come l'uomo in panchina, Luciano Spalletti, la geniale mente dietro un capolavoro senza precedenti. Un uomo che ha preso per mano una realtà simile alla propria, perdente di natura, scegliendo di sfidare un Fatoavverso come pochi, in un atteggiamento titanico da fare invidia all'Alfieri più pessimista, uscendone con lo Scudetto cucito sul petto. È il 4 maggio del 2023 e Napoli, 33 anni dopo l'ultima volta, è nell'Olimpo dei grandi."Me' credevo ca murevo e 'stu juorno nun 'o vedevo...". Ed invece l'ho vissuto. E chi s'o scorda cchiù...

A cura di Alex Iozzi

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