Settantadue su centosedici. È il numero di Scudetti vinti dall’asse Milan-Inter-Juventus nella storia del campionato di Serie A. La prima squadra titolata sotto il Po è la Roma, che ne conta all’attivo solo 3. Poi ci sono Fiorentina, Lazio e Napoli a quota 2. Numeri indecorosi che narrano di un grande squilibrio, di un disastro sportivo di un Sud che ha meno potere - di certo – ma anche una minore attitudine ed abitudine a saper vincere.
editoriali
La Lazio festeggia il nulla. Il Napoli si lecca le ferite: le radici culturali di un tracollo ripetuto
Un non-Napoli perde meritatamente contro la Lazio di Simone Inzaghi per 2-0. Questa è la voce inesorabile del campo. Abbiamo visto tempi migliori ma oggi, dopo 376 giorni di Rino Gattuso urge o meglio, viene spontanea una riflessione di più...
Le radici di un tracollo (culturale?)
Lorenzo Pellegrini, centrocampista dell’AS Roma, nella sua totale innocenza ha rilasciato alcune dichiarazioni da cui prendere spunto, che qui riporto parafrasate: “Sono stanco di sentir dire che chi vince a Napoli e a Roma uno Scudetto vince in realtà dieci Scudetti. Io ne voglio vincere dieci sul campo”. Una mosca bianca. Un grido sussurrato che suggerisce di smetterla di sentirci superiori nell’inferiorità, pretendendo di elevare la nostra passione-ossessione per lo sport a grande valore utile al campo. È il contrario.
L’ambiente che circonda una squadra è tutto. A Torino, la Juventus rinnova da cento e più anni un diktat ed ha uno stile ben preciso, i giocatori che arrivano vi si adattano e il tifo e i giornalisti ne prendono atto e fanno di conseguenza. Non è un caso che “uno juventino” sia un personaggio tipizzato riconoscibile, nel bene e nel male. A Napoli e a Roma il fatto è contrario: la piazza crea lo stile e chi si infila dentro si fa influenzare a vita (a morte). Ci siamo riusciti con tutti: Mazzarri piangeva dopo ogni sconfitta, Benitez passivo-aggressivo faceva i capricci a Sky con Massimo Mauro, Ancelotti non l’avevamo mai visto essere espulso. Ma sì, il problema erano loro. C’era davvero ieri (follia pura) chi si è lamentato della designazione arbitrale di Daniele Orsato di Schio, che è stato pressoché impeccabile. Il tanto esecrato Mazzoleni al VAR non ha mai avuto bisogno di intervenire.
La costruzione mediatica dell’alibi dopo la sconfitta contro l’Inter, che i giocatori stessi hanno sentito non meritata ha ancora una volta attecchito. Perché a Napoli è così: la società non ha un’identità, si confonde con quella cittadina. Se il tifoso medio Giuseppe Esposito da Mugnano pensa che sia meglio il 4-3-3 e lo dice a tutti i suoi amici che poi ci credono perché Giuseppe ha giocato da terzino sinistro nella Turris in Serie D, ecco che il malumore si diffonde. E diventa una macchia d’olio che arriva, con uno slancio telecinetico, nella mente dei calciatori.
L’identità di Milano invece non è l’identità del Milan: e vi sembra forse un puro caso che proprio una squadra (inferiore al Napoli) di Milano riesca a non perdere tutte queste partite e a giocare con tutto questo cinismo? Tra le tante, perché non la Lazio stessa (che l’anno scorso è scomparsa dopo il lockdown)? Perché non la Roma, bastonata a Bergamo 4-1? Dico io: perché non si è maturi abbastanza fuori e dentro. Perché riusciamo a dare amore morboso ma non ad essere sportivi e a mostrare cultura e intelligenza, nonostante ne siamo stati vera culla molto di più delle città e degli ambienti del Nord.
Oppure (follia pura cap. II) bisogna davvero credere che il Napoli, ricco di qualità tecniche esagerate, sia composto di uomini emotivi e fragili che non abbiano una spina dorsale tale da saper reagire con carattere ai problemi? E si può mai credere che degli atleti ben pagati ogni tanto abbiano timore o tristezza nello scendere in campo? Se sono lì è perché sognavano di essere lì. Non ci sono capitati, non sono cassieri al Burger’s King.
Mettiamola poi anche sul piano economico: una potenza mediocre come la società dell’Atalanta sta facendo grandi cose e sembra imbattibile. Ma ragazzi Gasperini non è un genio. Il discorso è semplice: non ha nel didietro addetti ai lavori impazziti pronti a giudicare male ogni calciatore e l’allenatore di turno dopo ogni sconfitta. Gli stessi che si esaltano dopo ogni vittoria. Ancora, forse i loro tifosi nei commenti ad un post social non insultano le madri di un giocatore che ha solo sbagliato un cross. Ma qui i tifosi sono allenatori e il tifo è guerra. Nel mondo deve tornare a parlare chi sa.
Sarà mica stato un caso che proprio con Sarri, allenatore della lotta al Palazzo e della Rivoluzione con cui il popolo si è unito senza proferire parola, il Napoli sia andato vicino allo Scudetto numero 3 della sua storia? Sbaglia chi scrive, o chi pensava che Ancelotti fosse un brocco? Che Benitez fosse aziendalista e non adatto all’Italia? Che Sarri stesso sia un traditore? Che Mazzarri fosse un mediocre? Che Gattuso sia solo un brav’uomo venuto per ridimensionare gli obiettivi? La disfatta del Napoli è colpa anche mia. È colpa di tutti noi.
Poi sì, c’è la stanchezza, le partite ogni tre giorni, le assenze di Mertens Insigne ed Osimhen, l’infortunio di Lozano, l’ampolla di San Gennaro, la tarantella i rococò i susamielli e gli amarcord del 1980, ma quando vogliamo crescere?
Il Napoli ieri (e non solo) è stato fanciullesco e capriccioso, come la sua/nostra popolazione che invece di essere rappresentata semplicemente dalla propria squadra la affligge con un umore da martire creando alibi che sono il fulcro di ogni declino. Un vittimismo che striderebbe persino su Gesù Cristo. Ma continuiamo pure a ciucciarci il dito, nel frattempo il prossimo Scudetto danzerà – ancora - tra Milano e Torino. E siamo noi a volerlo.
A cura di Mattia Fele
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