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Marek Hamsik, capitano del Napoli, ha rilasciato una lettera a ‘The Players’ Tribune

Marek Hamsik, capitano del Napoli, ha rilasciato una lettera a ‘The Players’ Tribune

Marek Hamsik, capitano del Napoli, ha rilasciato una lettera a ‘The Players’ Tribune’, sito dedicato alle testimonianze degli sportivi. Una lettera da brividi che racconta tutta la sua vita e la passione per il calcio: “A...

Redazione

Marek Hamsik, capitano del Napoli, ha rilasciato una lettera a 'The Players' Tribune', sito dedicato alle testimonianze degli sportivi. Una lettera da brividi che racconta tutta la sua vita e la passione per il calcio:

"A Napoli, non abbiamo un solo allenatore.

Ne abbiamo tre milioni.

Ogni uomo, donna e bambino sa cos’è meglio per il Napoli. Ogni bimbo di quattro anni sa come potremmo segnare più gol. Ogni donna novantenne che si occupa del suo orticello ti sa dire come e perché dobbiamo cambiare la formazione in campo.

Quel sentimento, quella passione, è nel loro sangue.

A Napoli, il calcio è come una religione e lo Stadio San Paolo è la sua chiesa. Il Napoli è l’unica società calcistica della zona e i napoletani se ne sentono parte – perché lo sono. Il calcio è ciò a cui pensano quando si svegliano, quello di cui parlano tutto il giorno, è quello che sognano di notte. Spesso si ha l’impressione che il calcio sia l’unica cosa che conta.

Io ci sono abituato. Il calcio è la mia vita da ventinove anni. Perciò, quelle sensazioni che scorrono nelle vene dei napoletani, beh, scorrono anche nel mio sangue. Le ho da quando in Slovacchia a sette anni ho guardato due brasiliani correre come dei matti in California.

Nel 1994 i mondiali si giocarono negli Stati Uniti e a Banská Bystrica, la città in cui vivevo le partite erano trasmesse alle undici di sera. I miei genitori troppo stanchi dopo una giornata di lavoro mi lasciavano solo davanti al televisore in salotto. La televisione slovacca trasmetteva tante partite del Brasile. Quella squadra era velocissima. Non avevo mai visto niente di simile.

Il Brasile aveva due attaccanti, Romario e Bebeto. Io ero incantato da loro. Dal loro palleggiare, dai loro passaggi di palla, dalla loro velocità – ho visto tutte le loro partite. Il calcio che giocavano i brasiliani era diverso da quello che avevo visto giocare in Slovacchia o dalle squadre europee che passava la televisione. Era a flusso libero ed era creativo.

Giocavo da tre anni allora e i miei genitori mi avevano comprato scarpe da calcio prima ancora che cominciassi a giocare. Quando cominciai a giocare l’allenatore mi mise a centrocampo. Mi disse che voleva che attaccassi spesso. Da allora non ho mai cambiato posizione. Ho amato il ruolo del numero 10 da subito. Mi permetteva di essere creative e potevo vedere l’intero campo.

Quando guardavo le partite in televisione osservavo sempre i giocatori che giocavano la mia posizione. Ho visto Zinedine Zidane e Pavel Nedved. Erano veloci, ma non troppo, proprio come me. Erano grandi passatori e sapevano impostare il gioco. Io volevo essere come loro e con ogni squadra con cui ho giocato, ho voluto mantenere la posizione da centrocampista.

A quindici anni mi sono trasferito a Bratislava, la capitale della Slovacchia per giocare nello Slovan Bratislava. Era un club più grande e il livello agonistico della squadra era molto più alto. Non mi sono fermato a Bratislava a lungo. Due anni dopo mi sono spostato di 800 kilometri, a una nuova squadra, un nuovo paese, un nuovo stile di vita: in Italia.

Ero lontano da casa ma vicino al mio obiettivo: essere un calciatore professionista.

Brescia è una piccola citta nel nord dell’Italia. Abituarmi alla vita lì non mi è stato difficile – mi sono subito sentito a mio agio. Le persone erano cordiali e accoglienti ed io mi sentivo di casa. Ho cominciato scuola e per i primi mesi ho avuto difficoltà perché non parlavo italiano, ma i compagni di scuola mi volevano bene e mi hanno fatto sentire uno di loro; mi hanno invitato spesso a cena a casa loro e mi hanno fatto conoscere la citta spiegandomi come meglio potevano i cibi che mangiavamo e i posti che vedevamo.

Col tempo lo stile di vita italiano è diventato il mio stile di vita. E in campo il mio stile di gioco ha avuto un’evoluzione. Ho cominciato a giocare per la prima squadra e il livello di gioco era il migliore che abbia conosciuto.

Tre anni dopo ero di nuovo in marcia. Questa volta il cambiamento non era drammatico, almeno all’inizio perché sono rimasto in Italia. Il Brescia mi aveva venduto al Napoli nel 2007.

Il mio primo giorno a Napoli cominciò insieme ad Ezequiel Lavezzi. I funzionari della squadra ci portarono a vedere lo stadio e ci presentarono alla stampa. Dalle prime ore avevo capito che lo Stadio San Paolo era diverso da qualsiasi altro posto del mio passato e futuro.

Vidi le foto dei grandi giocatori del Napoli sui muri dello stadio. Leggende come Maradona, Ferrara e Bruscolotti. Vidi i trofei della serie A e delle Coppe Italia – era evidente che Napoli era una città speciale e il Napoli una organizzazione speciale.

Quando cominciai la ricerca della prima casa in città mi sono accorto che tutte le persone che incontravo conoscevano il mio nome e la mia storia. Ero incredulo. L’affetto che avevo sentito a Brescia era poca cosa in confronto alla passione dei tifosi napoletani. A Brescia ero un ragazzo giovane che nessuno conosceva, mentre a Napoli non potevo fermarmi a prendere un caffè senza incontrare tifosi.

Il tifoso napoletano è ridondante. Se sei di Napoli sei un tifoso napoletano.

Quando abbiamo vinto la Coppa Italia nel 2012, ho capito che cosa era veramente Napoli. La città non aveva vinto un trofeo da venticinque anni e dopo la nostra vittoria a Roma ho visto una nuova Napoli. Sembrava una città impazzita. Credo di poterla descrivere come una follia bellissima, la migliore delle pazzie. Al nostro ritorno da Roma c’erano folle che si riversavano sulle strade dagli appartamenti, bandiere sventolanti da tutte le finestre: era magico. Quando vinci a Napoli, è la vittoria più bella del mondo perché non sono solo i giocatori a vincere, ma è la città e la sua gente che vince. E’ questo che la rende speciale.

Da allora, le partite della Champions League e dell’Europa League mi hanno svelato un altro lato di Napoli. Le squadre dal resto del continente che vengono a giocare qui sono sorprese dalla passione dei tifosi, dall’assordante volume del tifo. Non avremo lo stadio più grande d’Europa – o dell’Italia, ma i nostri sostenitori lo fanno sembrare enorme.

Per me l’eco dell’inno della Champions League allo Stadio San Paolo è la melodia della perfezione.

Napoli e l’Italia mi hanno dato tutto quello di cui ho bisogno.

Il calcio è importante per me e aver giocato per il Napoli per dieci anni è stato l’onore più grande della mia vita ma la ragione per cui sono rimasto a Napoli va oltre il calcio. A Napoli mi sento parte di una comunità, di una famiglia che ha un posto speciale nel mio cuore. Nella vita ho bisogno non solo di uno stipendio e di trofei, ho anche bisogno di sentire profondamente nella mia anima. Napoli mi ha dato questo ed io le sarò grato in eterno.

Grazie".

Fonte : Marek Hamsik per The Players Tribune REDAZIONE - Salvatore Amoroso