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Totti, Icardi, Denisov: tutti i fantasmi di Spalletti

Totti, Icardi, Denisov: tutti i fantasmi di Spalletti

Eppure è così che lo raccontano, anche i giocatori meno dotati di fantasia visionaria. A un certo punto Luciano Spalletti spalanca gli occhi, che già in condizioni normali sono grandi come gli oblò delle lavatrici e...

Redazione

Eppure è così che lo raccontano, anche i giocatori meno dotati di fantasia visionaria. A un certo punto Luciano Spalletti spalanca gli occhi, che già in condizioni normali sono grandi come gli oblò delle lavatrici e d’improvviso diventano finestre e assorbono tutto il resto, dietro lo sguardo umido sembrano custodire il vuoto e invece sono popolati di spettri. Vede gli spettri chi sta di fronte e si affaccia, anche se vorrebbe essere altrove, e in qualche modo li vede anche Luciano. Quel che è peggio, lui li sta a sentire. Dicono metta paura quando si arrabbia davvero. Ci manca l’esperienza diretta, ma non c’è da stupirsi. E’ roba che dovrebbe far parte del suo mestiere. L’arrabbiarsi, non gli spettri. Quelli sono una metafora. Forse. Per qualche motivo perduto in fondo al Sand Creek che attraversa la sua vita,

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Spalletti ha preso l’abitudine di scegliersi un nemico. Dovunque abbia allenato, dovunque abbia plasmato in modelli di rigorosa geometria dinamica le sue squadre - non gli mancano davvero creatività e sapienza professionale - ha trovato una quinta colonna in grado di turbare il suo equilibrio, l’uomo vestito di bianco che lo scruta. L’avversario diventa colui che dovrebbe essere il suo alter ego, l’angelo guardiano è il fantasma che perseguita. L’uomo forte, da Francesco Totti, a Mauro Icardi, si fa problema da risolvere.

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Avanza una teoria la dottoressa Alessandra Graziottin, che ha lo sguardo clinico della psicoterapeuta: «Esistono comportamenti quasi autolesionistici dai quali non si riesce a uscire. Si vive come un’obbligatorietà a ripeterli. Accade sul lavoro e anche nella famiglia, nella relazione di coppia. E’ inquietante sapere che chiunque può restarne prigioniero. Una seconda riflessione riguarda la capacità o l’incapacità di un leader, tipo un allenatore, a rapportarsi con il più importante degli uomini che gestisce. Quello che in teoria dovrebbe essere il suo ponte con il resto del gruppo, l’elemento di armonia. Il comportamento di un uomo è un grande fiume con tanti affluenti, non c’è una sola causa. Conta il carattere, conta il temperamento e in molti casi conta l’abitudine a una strategia che magari molte volte ha funzionato e viene replicata anche in ambienti nei quali è dannosa. A un leader serve duttilità. La presenza di donne forti, Wanda o Ilary, nella vicenda costituisce un ulteriore elemento di complicazione, estraneo agli schemi. Servirebbe un passo indietro da parte di tutti».

A essere onesti, quel passo indietro Spalletti non lo ha mai fatto. Neanche gli altri. Al di là delle leggendarie liti con Christian Panucci (precedute da quelle con Jankulovski, narrano gli storici di Udine), simbolo e immagine dei suoi passaggi alla Roma rimangono il primo addio, quello del 2009, in cui l’allenatore vide, anche se sfumata dall’ombra, la mano di Totti; e la battaglia sul confine del tramonto, lunga quanto l’ultima avventura del tecnico a Trigoria. Totti si lamentava delle esclusioni e dei silenzi, Spalletti lo mandava a casa, Totti tornava e faceva ciò che gli è sempre riuscito meglio, ripescare la Roma dai precipizi. Francesco era al crepuscolo e lo sapeva, ma ne voleva uno più glorioso e vichingo. Finì con le lacrime davanti al Genoa e con Spalletti in fuga verso l’Inter, convinto di essere il vincitore. Ma all’Inter avrebbe incontrato ancora se stesso e un nuovo Totti, argentino e duro e altrettanto sposato.

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Adesso si va a ripescare la vicenda di Igor Denisov, mediano dei tempi del prezioso periodo russo di Spalletti: era l’eroe del posto, voleva più soldi, ebbe gli occhi di Luciano piantati in faccia e la cessione all’Anzhi. Denisov peraltro ha litigato anche lì prima di andare a vivere e a giocare a Mosca e quella volta non c’erano Spalletti da incriminare. Ma Luciano tra questo, il linguaggio che scavalcava gli steccati dell’usuale, gli occhi giganteschi circondati di gesti ancora più ampi in panchina, l’iconoclastia riconosciuta nei confronti dei simboli umani della squadra si era costruito anche a San Pietroburgo la sua fama. E’ Spalletti, punto e basta, prendere o lasciare. Ci sarà sempre chi prende, non c’è da offendersi se qualcuno decide di lasciare.